Lettera a Pietro Ichino

Caro Pietro,

perdonami innanzitutto il tono confidenziale che sto usando. Ma molte cose ci accomunano per potermelo permettere. 

Abbiamo in comune l’educazione cattolica, l’impegno nella GIAC e la svolta con l’insegnamento di Don Milani, gli studi e la formazione giuslavoristica, nonché la passione per la politica e l’impegno nelle istituzioni. Abbiamo militato entrambi nel PCI ed entrambi (tu come parlamentare ed io come sindaco di Venosa e poi consigliere regionale di Basilicata) abbiamo voluto coniugare il lavoro scientifico con quello istituzionale. Nonostante questa comunanza di formazione ideale, professionale e politica mi sono trovato più volte a criticare le tue proposte, anche “ferocemente”, e tuttavia mi sono sentito sempre attratto dalle tue riflessioni, quasi un sentimento di odio e amore sul quale mi sono interrogato a lungo senza mai riuscire a spiegarmelo.

Oggi, forse, ho trovato una risposta. L’ho trovata a seguito dell’invito da te rivolto sabato scorso a partecipare “comunque” alle primarie del PD di domenica scorsa.

Di questo invito, come di quello di Prodi ed altri autorevoli  padri del PD, ho discusso con mia moglie ed alla fine lei è andata a votare ed io no. 

Entrambi però desideriamo che il PD rinasca come grande Partito nel quale possano convivere e confrontarsi, con regole certe e condivise, tutte le anime e le sensibilità di quel popolo che chiamiamo di centro sinistra. Entrambi non crediamo nella nascita di nuovi partitini a sinistra; entrambi abbiamo criticato la scissione di Bersani e Speranza (quest’ultimo è anche nostro corregionale); entrambi abbiamo creduto nel Renzi della Riforma costituzionale e di quella elettorale e nel Renzi dei diritti civili; ma meno nel Renzi degli 80 euro per tutti e dei solo “8” euro per i poveri del Rei e che chiude la porta al confronto con i 5 Stelle; ancora meno nel Renzi del Job act e degli ingenti sgravi contributivi a supporto; per niente abbiamo creduto nel Renzi che toglie l’IMU a tutti  e che perde tutto quello che ha fatto (anche la parte buona) per voler usare sempre l’IO. Se abbiamo questa piena condivisione politica, come mai due risposte diverse? Chi di noi due ha sbagliato?

Credo nessuno, perché possono ben esserci due risposte diverse anche se si vuol raggiungere lo stesso risultato.

Cerco di spiegarmi. Le primarie possono essere uno strumento importante per ricostruire il PD. Ma sono una cosa diversa se fatte a Milano rispetto a quelle tenute in Basilicata. A Milano il voto dei cittadini elettori e simpatizzanti del PD è libero; in Basilicata lo è meno perché è ancora forte il ricatto e la pressione dei “capibastone”.  

Nel dicembre 2017, per l’elezione del segretario regionale PD della Basilicata, nella sezione del mio paese, Venosa, circa 1300 persone, “convinte” dai capibastone locali, andarono  a votare e ben 935 espressero la loro preferenza per Polese, un illustre personaggio, sconosciuto però alla stragrande maggioranza dei votanti. Sul piano regionale a votare andarono 55.216 elettori ed oltre 40.000 scelsero Polese.

Dopo circa due mesi, nelle elezioni politiche del 4 marzo, nelle urne vere tutto il PD, e non solo la parte che ha sostenuto Polese, ha raccolto 1.139 voti a Venosa e 50.653 voti in tutta la Basilicata. 

Nessuna vergogna è stata provata per questo scandalo. Nessuna autocritica. Men che mai sono state presentate le dimissioni dai dirigenti politici così fortemente delegittimati. Né mi risulta che i gruppi dirigenti nazionali abbiano mai fatto una pubblica ammenda ed avviato una seria riflessione sul modo di intendere le primarie in Basilicata e a Venosa. 

Si può ricostruire il PD con questo ceto politico? Le primarie possono essere anche nel Mezzogiorno e in particolare nelle sue aree più interne uno strumento di reale partecipazione democratica alla vita del Partito? 

Con il mio non voto ho voluto non avallare Primarie che umiliano la dignità delle persone. Ho voluto richiamare l’attenzione sul fatto che anche  per le Primarie possa esserci una questione meridionale.  

Non sempre ciò che va bene al Nord può andare bene anche al Sud del Paese. Dobbiamo riflettere di più sulla specificità del Mezzogiorno nella ricerca delle risposte da dare alle domande che vengono dal Paese. E forse è proprio qui, nella diversità cioè dei contesti sociali, economici e culturali nei quali tu ed io viviamo che risiede la differenza delle nostre proposte e la loro apparente contrapposizione.  

Vogliamo raggiungere lo stesso risultato: un paese con più equità, giustizia ed efficienza. Ci ostiniamo però a proporre soluzioni che riteniamo debbano andare bene anche in situazioni molto diverse tra loro. Secondo me è questa la causa dei nostri “contrasti” e su cui è cresciuto quel sentimento di “odio/amore” nei tuoi confronti che per molto tempo non sono riuscito a spiegarmi.

In questi ultimi tempi, però, si va sempre più rafforzando in me la convinzione che l’importante è avere lo stesso fine, mentre gli strumenti da utilizzare possono e devono essere diversi, se le situazioni di partenza che si vogliono cambiare sono diverse. E noi viviamo in un Paese con grandi differenze economiche, sociali e culturali non solo tra Nord e Sud ma anche all’interno di queste due aree.  

Questa riflessione non mi pare, però, che trovi ancora l’attenzione che meriterebbe. 

Penso, ad es., alla proposta, circolata nel PD e non solo qui, di voler fissare un salario legale e nazionale minimo garantito per legge nell’importo di 10 euro ad ora, proposta che trovo davvero assurda.

Penso a come è stato disciplinato il Reddito di cittadinanza con importi e regole identiche su tutto il territorio nazionale, benché consapevoli delle condizioni estremamente differenti delle regioni italiane sia per quanto attiene alle condizioni del mercato del lavoro, sia per quanto attiene al costo della vita.

Penso al modo ipocrita e pilatesco  con il quale si è inteso rispondere, ormai da molti anni e senza alcuna seria inversione di tendenza, al problema del caporalato nella nostra agricoltura meridionale, e non solo.

Penso a come si sia data poca attenzione ai problemi del lavoro prestato in attività marginali, molto diffuso in particolare nel Mezzogiorno, dove non è possibile garantire le stesse tutele previste per le aziende che stanno sul mercato o che operano in un mercato protetto, pena la distruzione di queste attività o la loro completa immersione nel nero.

Penso all’ultima riforma del welfare, collegata più al modello del lavoro tipico del nord che non a quello dei lavori saltuari, precari e fuori mercato del sud. 

Penso ad una politica dell’accoglienza per gli immigrati molto formalistica, che ha portato a consumare ingenti e “scandalose” risorse, senza una vera integrazione e senza quel beneficio sociale che pure poteva e può essere colto, come ci ha mostrato il caso Riace.  

Su questi temi ho notato da parte tua attenzione ed interesse ad un doveroso approfondimento. Vogliamo provare a costruire insieme qualche iniziativa concreta per allargare il dibattito e la riflessione? Magari collegandola alla presentazione del tuo libro La casa nella pineta che, però, ti confesso, non ho ancora letto? oppure ad un tuo viaggio in Basilicata per Matera capitale europea  della cultura?

Un cordiale saluto

Canio Lagala  

Venosa, 5 marzo 2019

 

La risposta di Pietro Ichino sul suo sito www.pietroichino.it

“Lettera di Canio Lagala (*) pervenuta il 5 marzo 2019 – Segue la mia risposta – In argomento v. anche  l’intervento che ho svolto al congresso dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale a Palermo, il 17 maggio 2018 sui Problemi costituzionali in tema di standard retributivo inderogabile – Per curiosa (significativa?) coincidenza, poco prima della pubblicazione di questa lettera sono stati pubblicati due interventi di osservatori molto qualificati (Claudio Negro e Giuliano Cazzola) sulla questione del minimum wage, entrambi orientati nel senso della necessità di adattabilità degli standard retributivi alle differenti condizioni regionali di costo della vita, infrastrutture e produttività media del lavoro”

Ha ragione C.L.: gran parte dei nostri dissensi degli anni passati – ricordo tra i primi quello che mi divise da lui tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 sulla riforma del collocamento pubblico – nascono dal fatto che le mie idee e proposte si riferivano alla realtà del mercato del lavoro e del tessuto produttivo del Centro-Nord del Paese, mentre le sue si riferivano a quella del Sud. Questa sua lettera, straordinariamente interessante, mette in rilievo l’influenza enorme che gli squilibri esistenti in Italia tra Mezzogiorno e Settentrione esercitano sugli effetti pratici delle norme giuridiche: disposizioni formalmente uguali possono produrre conseguenze profondamente diverse a seconda che si applichino a Milano o a Reggio Calabria. E il discorso può agevolmente spostarsi dalle norme giuridiche alle politiche economiche e del lavoro; nonché – C.L. aggiunge acutamente – alle scelte statutarie di un partito circa i propri meccanismi di democrazia interna. Sul circolo vizioso che può instaurarsi tra difetto di senso civico diffuso e sotto-sviluppo economico di una regione, del resto, nell’ultimo mezzo secolo le scienze sociali hanno gettato molta luce. I frequentatori di questo sito ben sanno come questo tema, coniugato con quello dell’assistenzialismo, sia stato al centro del dibattito che si è svolto negli anni passati tra me e alcuni giovani calabresi interessati a una sciagurata misura adottata dalla loro Regione a favore dei laureati a pieni voti. Una conclusione per la sinistra, ma (perché no?) anche per la destra, è forse quella secondo cui per lo sviluppo del Mezzogiorno possono essere necessarie misure di politica economica e del lavoro, tecniche normative e persino standard protettivi concepiti in modo diverso. La lettera di C.L. può costituire lo spunto iniziale per un dibattito serio su questo tema.     (p.i.)