Precariato e welfare in Italia

 

 

Sintesi del libro

Precariato e welfare in Italia

di

Canio Lagala

Ediesse Roma 2005

CAPITOLO I

UN WELFARE COMPASSIONEVOLE PER I LAVORATORI PRECARI?

Nel primo Capitolo del libro l’A. avvia  la sua analisi ponendo i seguenti interrogativi: dove si vuole arrivare quando si insiste nel voler portare a completo compimento il processo di separazione, pur avviato da anni, della previdenza dall’assistenza? Si intende la stessa cosa tanto a destra quanto a sinistra? Può essere questo un obiettivo vantaggioso per tutti? Come cambierà il nostro sistema di protezione sociale rispetto ai caratteri ibridi, di commistione tra previdenza e assistenza, che ha avuto sino a oggi (e che, in parte almeno, continuerà ancora ad avere per il prossimo futuro)?

La sua tesi, esplicitata sin dalle prime battute, è che l’obiettivo proclamato dai più di separare la previdenza dall’assistenza non abbia una valenza sicuramente progressiva perché teme – ma la sua è quasi una certezza – che attraverso questa via si pongano le premesse per arrivare a una riduzione qualitativa e quantitativa delle tutele riconosciute a favore dei lavoratori precari.

Le valutazioni a sostegno di questa tesi sono diverse.

Innanzitutto si fa notare come Prima della riforma pensionistica degli anni Novanta il nostro sistema era costruito chiaramente su tre differenti livelli di tutela: quello nettamente previdenziale per i lavoratori con lunghe e consistenti storie contributive; quello esclusivamente assistenziale per i cittadini poveri, invalidi o anziani ultra-sessantacinquenni, e quello intermedio per i lavoratori con brevi storie contributive e in condizioni di bisogno accertato (ma con riferimento a una soglia di povertà superiore a quella richiesta per i semplici cittadini). … Con quest’ultimo livello di tutela, in parte previdenziale (per i contributi versati dai soggetti interessati) e in parte assistenziale (per l’intervento della solidarietà generale), si è garantita nel nostro Paese una protezione sociale a diversi milioni di soggetti. Questi sono i pensionati con i trattamenti integrati al minimo pari a oltre il 40% del totale delle pensioni erogate dal fondo pensioni lavoratori dipendenti e a percentuali ancora più elevate nelle gestioni pensionistiche dei lavoratori autonomi, e in quella dei coltivatori diretti in particolare.

Con la riforma pensionistica degli anni Novanta, invece, insieme a misure condivisibile ed indispensabili,  l’A. sostiene che è stato fortemente intaccato… il precedente sistema di protezione sociale costruito su tre differenti livelli di tutela (previdenziale, assistenziale e misto)… portando … profonde e discutibili modifiche ai caratteri fondamentali del sistema sulle cui conseguenze non si sarebbe riflettuto abbastanza.

Gli aspetti maggiormente criticati dall’A. riguardano: l’eliminazione del tetto di retribuzione pensionabile che è stato unificato con quello imponibile; … l’esclusione, per le nuove pensioni calcolate con il sistema contributivo, della possibilità di ottenere l’integrazione al trattamento minimo; la destinazione di ingenti risorse pubbliche, sotto forma di agevolazioni fiscali di cui beneficiano maggiormente i redditi più alti, a favore delle previdenza complementare che risponde per lo più a una logica di mero risparmio individuale, anche se di natura previdenziale.

Queste modifiche avrebbero, per l’A., fortemente ridimensionato i caratteri solidaristico-redistributivi del nostro sistema previdenziale, esaltando al contrario quelli mutualistico-assicurativi di maggiore corrispettività tra i contributi versati e le prestazioni attese. In tale contesto, il sistema di tutele su tre livelli che abbiamo conosciuto in passato è destinato a essere lentamente ma inesorabilmente superato.

Il nuovo sistema pone però grossi problemi sia di legittimità costituzionale che di ordine pratico.

Per quanto attiene ai profili costituzionali si fa notare che l’eliminazione dell’integrazione al minimo per i nuovi trattamenti pensionistici liquidati esclusivamente con il metodo contributivo non assicura più il rispetto del principio dell’adeguatezza della prestazione previdenziale previsto dall’art. 38 della Costituzione. Più che per le pensioni di vecchiaia il problema si pone -secondo l’A– per gli assegni di invalidità, le pensioni di inabilità e le prestazioni a favore dei superstiti.

Circa gli aspetti più di ordine pratico si afferma che Con le nuove regole del sistema contributivo…la maggior parte dei lavoratori precari, con storie contributive frammentate e di poco valore, non riuscirà mai a maturare un trattamento pensionistico superiore a quello di base di tipo universale (come la pensione sociale) al quale si può comunque accedere a prescindere dai contributi versati. In pratica, i lavoratori precari pagheranno i contributi previdenziali, ma non per finanziare le proprie pensioni quanto piuttosto quelle dei lavoratori standard (a tempo pieno e indeterminato). Da questa constatazione viene forte la spinta a non pagare i contributi e a utilizzare diversamente gli importi così risparmiati, in collusione con il datore di lavoro che troverà pure il suo interesse nel nascondere il lavoro svolto. In tal modo le nuove regole pensionistiche, e in particolare l’eliminazione dell’integrazione al minimo, rendendo inutile la contribuzione del lavoro precario ai fini dell’accesso alle prestazioni, rappresentano un potente incentivo alla crescita del lavoro nero e irregolare, già molto esteso nel nostro Paese, con grave danno tanto per il finanziamento della previdenza quanto per il bilancio pubblico al quale mancheranno le entrate fiscali dei redditi da lavoro occultati.

Dopo le pensioni, l’A affronta anche le conseguenze della separazione della previdenza dall’assistenza nel settore degli ammortizzatori sociali e della tutela economica di malattia mostrando come i soggetti maggiormente penalizzati dalla volontà di separare nettamente la previdenza dall’assistenza sono quelli più deboli del nostro mercato del lavoro: uomini e donne che svolgono lavori saltuari, precari, stagionali o nuove forme di lavoro cosiddetto parasubordinato o autonomo ma con scarsa autonomia, se non altro dal punto di vista economico.

In passato -rileva l’A-  per i lavoratori precari si è riusciti a costruire un sistema di tutele che ha assicurato insieme una forte coesione sociale e una dignità di cittadini-lavoratori a chi ne ha beneficiato, mentre, oggi questo stesso risultato è messo fortemente in dubbio.

Si ricorda a tal proposito il particolare sistema di protezione sociale che si è costruito intorno ai lavoratori agricoli negli anni Cinquanta e Sessanta. Con sole 51 giornate di lavoro all’anno (e per molti anni anche non necessariamente certificate ma solo presunte, come sta a ricordarci la nota ma ormai remota vicenda degli elenchi anagrafici prorogati) ai lavoratori agricoli, detti anche «giornalieri di campagna», è stato assicurato un reddito previdenziale fatto di indennità di disoccupazione, di malattia, di maternità e di assegni familiari che, integrandosi con quello da lavoro, ha consentito a milioni di famiglie di sopravvivere con la dignità di lavoratori, poveri certo, ma senza la vergogna di dover ricorrere alla compassionevole beneficenza pubblica. … A questi stessi lavoratori si è consentito inoltre di poter costruire un futuro pensionistico di livello decisamente superiore a quello pure assicurato ai cittadini poveri e in disagiate condizioni economiche. Un ruolo fondamentale hanno giocato a questo fine l’istituto della contribuzione figurativa a copertura dei periodi indennizzati per malattia, infortunio, maternità ma principalmente disoccupazione, che arriva a essere concessa sino a un massimo di 180 giorni l’anno, nonché il riconoscimento di particolari meccanismi di maggiorazione dell’anzianità contributiva effettiva, in particolare per le donne. In questo modo, oggi in molte aree del nostro Paese, specie del Mezzogiorno, tra i lavoratori che godono di un trattamento pensionistico superiore al minimo, anche se di poco, figurano proprio, e talvolta esclusivamente, i braccianti del settore agricolo.

Questi risultati non potranno più essere raggiunti per i lavoratori precari e discontinui dell’attuale mercato del lavoro, che risultano in diminuzione nel settore agricolo ma in forte crescita in tutti gli altri settori produttivi, e che potremmo chiamare i nuovi braccianti del terzo millennio. A impedirlo, rileva l’A, è sia il nuovo sistema pensionistico contributivo sia la disciplina vigente (ma ancor più quella programmata) degli ammortizzatori sociali, entrambi ispirati a una logica più mutualistico-assicurativa che solidaristico-redistributiva, in ossequio proprio all’idea di separare la previdenza dall’assistenza.

A questo punto dell’analisi l’A si chiede anche “cosa fare?”.

Due sembrano essere le principali opzioni.

La prima è quella imboccata negli ultimi anni con l’idea di separare nettamente la previdenza dall’assistenza e che porta alla rinunzia di una forte solidarietà nel mondo del lavoro affidando i soggetti più forti a prestazioni sempre più individualizzate e di tipo assicurativo e quelli più deboli alle cure dell’assistenza, con una riviviscenza delle discutibili pratiche di controllo dell’effettivo stato di bisogno così da favorire la costruzione di un modello di welfare di tipo compassionevole. In sostanza, la protezione sociale dei lavoratori precari passerebbe sempre più a carico esclusivo del bilancio pubblico nell’ambito dell’assistenza, al pari di tutti gli altri cittadini poveri e previa verifica dello stato di bisogno. Percorrendo questa strada è da prevedere che si arrivi a un’accentuazione dei caratteri universalistici del nostro sistema di protezione sociale dove sono di poca o nessuna utilità le storie contributive frammentate e di poco valore. La conseguenza più scontata di questa evoluzione sarà l’assenza o comunque un minore afflusso di gettito previdenziale proveniente dai lavoratori precari. Questi infatti non avranno alcun interesse a far versare i contributi dai quali non potranno trarre vantaggi, ma è anche possibile che si arrivi a riconoscere legislativamente l’esonero dalla contribuzione previdenziale per i lavoratori precari così come avviene in altri Paesi europei, quali ad esempio la Germania e l’Inghilterra.

L’altra strada è quella seguita in passato con il mantenimento di un livello di tutela intermedio tra quello previdenziale e quello assistenziale nel quale anche con una contribuzione minima dei soggetti interessati è possibile godere di prestazioni, più elevate di quelle assistenziali, pagate con ricorso alla solidarietà sia dei lavoratori più strutturati sia dell’intera collettività nazionale. È questa una strada più difficile da percorrere per due ordini di ragioni. Innanzitutto, perché richiede la solidarietà dei lavoratori più strutturati che ultimamente sono stati già sottoposti a pesanti restrizioni del loro stato sociale e che pertanto non accetterebbero di essere ulteriormente penalizzati anche se a favore dei loro colleghi occupati solo in modo saltuario e precario. Secondariamente perché più macchinosa, meno trasparente e pertanto imputata di consentire, come pure si è verificato in passato, abusi di vario genere.

Alla domanda su quale sia la strada da preferire l’A. non risponde in modo esplicito affermando di voler semplicemente sollecitare una riflessione più attenta, e magari un dibattito, su dove portano le scelte che si vanno compiendo per la riforma del nostro stato sociale e in particolare per la tutela da assicurare alla massa sempre più consistente di lavoratori precari presente nel mercato del lavoro italiano, ma anche in quello europeo.

Traspare, però, molto chiaramente la sua preferenza per la soluzione lavoristica e solidaristica seguita in passato. A tal riguardo l’A. ritiene che facciano ben sperare due recenti e interessanti proposte di legge: una promossa dalla Cgil e l’altra presentata da un autorevole gruppo di senatori dell’Ulivo.

Entrambe le proposte, puntualmente analizzate dall’A., si muovono … nella direzione della costruzione di un reddito minimo garantito per i lavoratori solo precariamente occupati… mentre …manca  una proiezione di questa tutela del reddito durante la vita attiva anche sul piano pensionistico, benché non sia difficile costruirla.

In particolare l’A richiama l’attenzione su due  punti fondamentali delle proposte esaminate: a) la previsione del diritto ad un trattamento, ad integrazione del reddito da lavoro, fino a raggiungere i 9.300 euro all’anno  a condizione che non si superi un reddito familiare annuo pari a 16.000 euro calcolato in base all’Isee;  b) l’accertamento dello stato di disoccupazione per tutte le giornate non lavorate nell’anno in relazione al quale si chiede il trattamento di disoccupazione.

Entrambe le misure sono condivise dall’A.  La prima perché aggancia a una condizione di bisogno accertato (ma non di basso livello e senz’altro accettabile) una prestazione che, al di là dell’apparenza, ha una connotazione sostanzialmente assistenziale, così come già avviene da tempo per una prestazione dagli stessi caratteri quale l’integrazione al trattamento minimo di pensione. La seconda perché, colmando una vistosa e grave lacuna dell’attuale disciplina, mira a impedire utilizzi impropri della prestazione magari a copertura di attività di lavoro al nero o in funzione di destrutturazione del lavoro stabile e a tempo pieno, come si è  accertato in alcune aree del nostro Paese dove attività produttive di per sé stabili e continuative sono state gestite con assunzioni precarie e discontinue rese sopportabili, e forse anche gradite, dall’intervento della indennità di disoccupazione.

Si fa notare tuttavia come vi sia ancora oggi una scarsa attenzione al problema dell’accertamento delle giornate non lavorate e per le quali si chiede l’indennità di disoccupazione. Sarà questo un compito al quale dovranno provvedere i Centri per l’impiego chiamati a operare sotto l’egida delle Regioni. Non sembra però che al momento vi sia una larga e convinta consapevolezza dell’impegno che richiede una tale funzione in quanto il dibattito in corso sui compiti dei Centri per l’impiego è orientato principalmente su come organizzare i servizi da rendere ai disoccupati frizionali e di lunga durata, piuttosto che sui problemi connessi alla necessità di accertare il mantenimento dello stato di disoccupazione dei lavoratori con occupazione parziale, saltuaria e intermittente, ammessi al beneficio dell’indennità di disoccupazione.

L’A, infine, trova sconfortante constatare che, anche nelle Regioni governate dai partiti che si riconoscono nell’Ulivo, il grado di attivazione dei Centri per l’impiego è molto basso, così come sono del tutto insufficienti le energie e le risorse agli stessi destinate specie se con riguardo alle loro funzioni di accertamento e gestione della disoccupazione, funzioni che sono essenziali per poter reggere moralmente ed economicamente l’integrazione del reddito che si vuole assicurare a tutti i lavoratori con occupazione precaria.

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CAPITOLO II

PROFILI PREVIDENZIALI DELLE NUOVE TIPOLOGIE CONTRATTUALI DEL D. LGS 276/2003 (E SUCCESSIVE MODIFICHE E INTEGRAZIONI)

In questo capitolo l’A compie una dettagliata analisi dei profili previdenziali delle nuove tipologie contrattuali, verificando in particolare quali problemi si pongono per l’accesso da parte dei lavoratori assunti con le nuove tipologie contrattuali alle tutele assicurative cosiddette minori per la disoccupazione, la malattia, la maternità, gli infortuni.

L’A nota preliminarmente come molti siano convinti che  Il lavoro non potrà essere più quello di una volta, lo stesso per tutta la vita, stabile e a tempo pieno; bisognerà invece predisporsi a fare lavori diversi, di durata variabile e con statuti protettivi differenti. Non è detto però che questa tendenza alla flessibilizzazione dei rapporti di lavoro non possa essere regolata, combattuta nei suoi eccessi e resa così più sopportabile.

Da più parti -ricorda l’A- si insiste perché alla riduzione delle tutele nel rapporto di lavoro corrisponda un forte incremento delle tutele nel mercato del lavoro. E’ questa la politica della cosiddetta flexicurity da anni oramai proposta in più sedi, specie comunitarie. Più in particolare, con questa formula si intende far riferimento alla necessità di potenziare i servizi per l’impiego e qualificare gli interventi di formazione professionale così da sostenere attivamente il lavoratore disoccupato, o precariamente occupato, nella ricerca di una nuova occasione di lavoro, ma si intende anche sottolineare la necessità di definire nuove regole di funzionamento del nostro sistema di sicurezza sociale così da assicurare opportune forme di integrazione del reddito nei momenti di non lavoro e la costruzione di un’adeguata tutela pensionistica anche nei percorsi lavorativi più frammentati e precari. …In sostanza, i servizi per l’impiego, la formazione professionale e il nuovo welfare sono gli strumenti principali attraverso i quali la flessibilità nei rapporti di lavoro può risultare anche socialmente sostenibile, senza dover rinunciare ai livelli di coesione sociale raggiunti in Italia e nel resto d’Europa.

A una politica di questo tenore, ci ricorda l’A, dichiarava di volersi ispirare anche il Libro bianco del lavoro, presentato dal Governo nell’ottobre 2001, da cui hanno tratto origine la legge-delega n. 30/2003 e i suoi decreti attuativi n. 276/2003 e n. 251/2004.

A quattro anni dalla presentazione del Libro bianco i risultati raggiunti non sono -secondo l’A.- certamente positivi sia per lo stato in cui versano i nuovi servizi per l’impiego sia per il mancato decollo della formazione professionale. Viene fatto notare, tuttavia, come ciò che più è mancato per l’attuazione di una politica di flexicurity è proprio il nuovo welfare: nessuna nuova tutela previdenziale o assistenziale è stata introdotta a compensazione della perdita di diritti nel rapporto di lavoro, mentre in più casi è possibile riscontrare come a una precarizzazione del rapporto di lavoro sia conseguita anche una più ridotta tutela previdenziale.

Di certo, non era tra le finalità della legge n. 30 e dei suoi decreti attuativi quella di costruire un nuovo welfare per i lavoratori precari; una risposta a questo problema doveva però venire dal disegno di legge di riforma degli ammortizzatori sociali che, pur presente nei programmi della maggioranza governativa, ha avuto un’attuazione molto parziale e del tutto insufficiente. Un limite questo che non solo ha reso iniqua e socialmente inaccettabile la flessibilità introdotta con la legge Biagi, ma -come si dimostra con l’analisi particolareggiata svolta dall’A- ha anche fortemente limitato -se non proprio impedito, come nel caso del lavoro ripartito– l’effettivo utilizzo di alcune delle nuove tipologie contrattuali flessibili.

CAPITOLO III

LA NOZIONE DI DISOCCUPAZIONE AI FINI PREVIDENZIALI E DI POLITICA ATTIVA DEL LAVORO

In questo capitolo l’A. si occupa della nozione di disoccupazione e dell’uso che si è inteso fare di tale nozione nella più recente disciplina riguardante i servizi per l’impiego e la previdenza sociale. In particolare, vuole accertare se a partire dai decreti legislativi 181/2000 e 297/2002 sia stata introdotta nel nostro ordinamento una nozione unica di disoccupazione valida sia ai fini dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro sia ai fini del godimento delle prestazioni di disoccupazione.

Per l’A., in passato non c’è mai stata una nozione unica di disoccupato alla quale potersi riferire per l’accesso alle molteplici forme di agevolazioni previste a favore dei soggetti privi di lavoro.

Contrariamente a quanto sostenuto da altra dottrina, l’A. ritiene che sia da escludere ogni collegamento diretto e automatico tra la disciplina dello stato di disoccupazione a norma del decreto 297 e la tutela previdenziale per la mancanza di lavoro (anche a seguito di quanto previsto dall’art. 13 della legge 80/2005). Pensarla diversamente porterebbe a conclusioni assurde come, ad es., l’esclusione dal diritto all’indennità di disoccupazione dei lavoratori precari della scuola con un reddito da lavoro superiore a 7.500 euro annuo.

Per l’A., lo stato di disoccupato disciplinato nel decreto 297 ha una valenza limitata esclusivamente alla gestione dei servizi per l’impiego; quella nozione serve cioè per individuare i soggetti a favore dei quali i servizi per l’impiego devono predisporre tutte le misure necessarie per un più rapido reinserimento lavorativo, dal colloquio di orientamento alla proposta di misure di inserimento lavorativo o di qualificazione e riqualificazione professionale, sino alla sottoscrizione del cosiddetto “patto di servizio” con il quale la struttura pubblica concorda con il soggetto interessato tutte le iniziative da porre in essere per la ricerca di una nuova occupazione. In pratica, la perdita o la conservazione dello stato di disoccupazione ai sensi del decreto 297 non può comportare automaticamente la perdita o il mantenimento del trattamento di disoccupazione. Perché ciò avvenga è necessario che il legislatore nazionale lo preveda in modo esplicito, avendo piena consapevolezza delle scelte da compiere.  E la sede più naturale dove operare tali scelte non può che essere la tanto attesa e mai realizzata riforma degli ammortizzatori sociali.

CAPITOLO IV

LA PREVIDENZA AGRICOLA Tra passato e futuro

La considerazione di base dalla quale parte l’A  in questa parte del libro è che  Nel nostro Paese la previdenza agricola ha costituito lo strumento attraverso cui si è realizzata una gigantesca redistribuzione di reddito della quale non sempre si ha chiara percezione, ricordando quanto ebbe a rilevare uno studioso americano di nome Gardner Clark, in un bel saggio pubblicato verso la fine degli anni ’70, nel quale si faceva notare come in Italia, solo con riferimento ai trasferimenti avvenuti nel 1972, si fosse speso per la tutela sociale dei lavoratori agricoli l’equivalente degli investimenti militari americani in Vietnam al culmine della guerra.

In effetti, a partire dalla seconda metà degli anni ’50, grazie a un’ingente spesa di danaro pubblico si è garantito un reddito minimo di sopravvivenza a milioni di famiglie povere, specie nel Sud del Paese; inoltre, si è governata, in modo non traumatico, una transizione da un’economia prevalentemente agricola a un’economia prima industriale e poi dei servizi; infine, si è assicurato quell’elevato livello di coesione sociale che ha reso possibile lo sviluppo economico, sociale e civile avutosi nel nostro Paese dal secondo dopoguerra ad oggi.

Tutto ciò –fa notare l’A– è stato realizzato attraverso un uso improprio della previdenza che ci da ragione dell’ingente deficit strutturale della previdenza agricola, pagato attraverso la solidarietà sia dei lavoratori degli altri settori produttivi sia di tutta la collettività nazionale con il ricorso alla fiscalità generale.

Probabilmente… si sarebbero potuti raggiungere i medesimi risultati utilizzando altri strumenti. In particolare, si sarebbero potuti tenere separati gli interventi di carattere previdenziale, impostati sull’assicurazione contro un rischio sociale effettivo, da quelli chiaramente assistenziali, dettati da situazioni di bisogno strutturale non generate da eventi futuri e incerti. Ma così non è stato e così non è ancora oggi, nonostante oramai da diversi anni si chieda di distinguere la previdenza dall’assistenza.

La conseguenza più evidente di questo stato di cose è che in agricoltura vi è uno squilibrio impressionante tra contribuzioni e prestazioni: non è esagerato dire che in questo settore per ogni euro pagato di contribuzione se ne percepiscono più di venti di prestazioni (dalle varie tipologie di indennità di disoccupazione alla prestazione economica di malattia, dalla tutela della maternità agli assegni familiari e alla contribuzione figurativa e così via.). Come è facile immaginare, un tale squilibrio ha favorito abusi di vario genere, il più delle volte riconducibili alla mancanza di un sistema di tutele di tipo universalistico. In sostanza, molti soggetti alla ricerca di una protezione sociale (in caso di malattia, di maternità o semplicemente per integrare il loro magro reddito familiare), non trovandola altrove, si sono rivolti proprio alla previdenza agricola pur avendo con questo settore rapporti molto blandi o del tutto inconsistenti.

Per combattere gli abusi l’A. ricorda ed esamina gli interventi di riforma attuati nell’ultimo decennio:

  • la riorganizzazione del sistema di accertamento delle giornate lavorative con il superamento dello Scau e delle commissioni locali di collocamento e l’accentramento delle competenze all’Inps;
  • la liberalizzazione del mercato del lavoro agricolo con l’introduzione del registro d’impresa;
  • la previsione di un sistema di controlli fondato sulla denunzia aziendale e sulla stima tecnica;
  • il cd. blocco del salario convenzionale finalizzato al graduale passaggio ai salari contrattuali;
  • la riclassificazione delle zone svantaggiate;
  • i benefici in caso di calamità naturali.

Dopo dieci anni di riforme, però, l’A ritiene che il bilancio circa i risultati raggiunti si presenti piuttosto deludente. … A dimostrarlo ci sono i dati degli iscritti alla previdenza agricola e dei beneficiari delle sue prestazioni negli anni  successivi agli interventi di riforma considerati. Questi numeri sarebbero dovuto diminuire  sia per le ragioni della naturale e costante riduzione dell’occupazione nel settore primario sia per effetto della nuova gestione unitaria del settore operata dall’Inps che avrebbe dovuto quantomeno limitare gli abusi del passato. Al contrario si è registrato un significativo incremento -in alcune aree, specie del Mezzogiorno, anche molto accentuato- tanto degli iscritti alla previdenza agricola quanto dei beneficiari delle sue prestazioni.

Dalle Tabelle (n. 1 e n. 2) riportate in Appendice emerge chiaramente come sul piano nazionale, dal 1996 al 2003, gli operai a tempo determinato (OTD) iscritti alla previdenza agricola siano passati da 876.830 a 920.653 con un incremento del 5%.

Se dal dato nazionale si passa poi a quello regionale la situazione diviene per certi aspetti inquietante. Emblematico, a tal proposito, è il caso della regione Puglia che, da sola, rappresenta oltre il 20% della manodopera agricola nazionale. Ebbene, negli stessi anni sopra considerati (1996-2003), in questa regione si è registrato un incremento del 7,28% del totale degli OTD iscritti alla previdenza agricola con una forte crescita del peso dei 151unisti (dal 14 al 19%) e un forte calo della componente dei 51unisti scesi dal 38 al 30%. Ma ciò che più preoccupa in questa regione non è tanto l’aumento complessivo degli iscritti alla previdenza agricola, quanto il modo in cui si perviene a tale dato che è la risultanza di una forte crescita di iscrizioni in talune province e di una loro consistente riduzione in altre. In particolare al risultato regionale del +7 % si perviene sommando i forti incrementi di Taranto ( +34%), Foggia (+21%) e Bari (+ 12%) con i decrementi di Brindisi (-26%) e Lecce (-4%). Questi dati così contraddittori difficilmente si spiegano semplicemente in ragione delle differenti produzioni dei territori considerati e del diverso andamento dei loro mercati, in quanto rappresentano piuttosto un indice molto grave di un mercato del lavoro soggetto non a regole di carattere generale bensì a compromessi da raggiungere con più o meno fortuna a livello locale.

Il giudizio non cambia se dai dati relativi al numero degli iscritti nella previdenza agricola si passa a considerare esclusivamente il numero, più ridotto (perché dalla massa degli iscritti sono esclusi coloro che non hanno maturato i requisiti assicurativi minimi, come ad esempio le 51 giornate annue di lavoro), di coloro che beneficiano delle prestazioni previdenziali-assistenziali del settore agricolo.

Nel complesso i beneficiari dell’indennità di disoccupazione nel 2003 sono poco più di 600 mila, concentrati per oltre l’85% nel Mezzogiorno con un picco nella regione Puglia dove si sono registrati quasi 148.000 beneficiari, vale a dire poco meno del 25% del totale nazionale (cfr. Tabella n. 4).

Questi dati evidenziano chiaramente come in alcune aree del nostro Paese, in questi ultimi anni, vi sia stata una crescita abnorme dei beneficiari della previdenza agricola così da accentuare ancor di più la sua funzione di supplenza rispetto ad un sistema di tutele di base che lo Stato non garantisce per altre vie. In tal modo però, dagli abusi individuali o familiari del passato, il ricorso alla previdenza agricola, al fine di ottenere forme di integrazione del reddito per il presente nonché prestazioni pensionistiche per il futuro, ha assunto dimensioni davvero di massa nelle quali non di rado si sono potute insinuare anche forme di delinquenza organizzata, come è emerso nelle cronache giornalistiche degli ultimi tempi che hanno dato conto di numerose truffe ai danni dell’Inps, compiute in alcuni Comuni pugliesi, attraverso la denunzia di milioni di giornate di lavoro fittizie, dichiarate da numerose aziende, a loro volta inesistenti, che hanno permesso ad alcune migliaia di soggetti di beneficiare illegittimamente di prestazioni previdenziali agricole.

Né un tale fenomeno può essere circoscritto alla sola regione Puglia perché risulta che un po’ ovunque, in particolare nelle Regioni meridionali, sono in corso indagini per accertare falsi imprenditori agricoli e falsi braccianti.

A questa analisi piuttosto allarmante l’A. fa seguire delle proposte o meglio delle Idee per una riforma della previdenza agricola. I punti di forza di un progetto di riforma immaginato dall’A.sono principalmente tre.

Innanzitutto, bisognerebbe semplificare le procedure di assunzione e assicurazione per i piccoli imprenditori agricoli per i quali spesso costa più la prestazione da pagare al consulente che la contribuzione da versare all’Inps. … Un modello di riferimento potrebbe derivare da quanto previsto nel D. Lgs. 276/2003 a proposito del lavoro occasionale accessorio che dovrebbe essere compensato ed assicurato attraverso appositi ticket acquistati dal datore di lavoro nelle agenzie autorizzate e consegnati successivamente al lavoratore. … Una tale riforma è senz’altro a beneficio delle piccole imprese agricole, ma presenta indubbi vantaggi anche per l’ente previdenziale che, tramite il sistema dei ticket, avrebbe la certezza delle entrate contributive e vedrebbe ridursi notevolmente i propri adempimenti amministrativi così da poter concentrare tutta l’attività di controllo e gestione semplicemente nei confronti delle aziende di più grandi dimensioni.

Un secondo punto caratterizzante l’intervento di riforma dovrebbe riguardare una forte incentivazione alla costituzione di rapporti di lavoro a tempo pieno ed indeterminato. Si potrebbe prevedere a tal proposito uno sgravio contributivo totale per tutte le nuove assunzioni a tempo pieno e indeterminato, anche con contratti inter-aziendali, effettuate da imprenditori agricoli che aumentano il numero delle giornate denunziate nell’anno precedente. Una tale previsione non costerebbe nulla al bilancio pubblico, ma al contrario apporterebbe notevoli economie. Le minori entrate contributive, infatti, sarebbero largamente compensate dalle minori prestazioni di disoccupazione e di contribuzione figurativa che verrebbero ad essere erogate; senza dire poi del beneficio che conseguirebbe l’erario per effetto della tassazione dei redditi conseguiti con le maggiori giornate di lavoro denunziate. Questi lavoratori a tempo indeterminato, nei casi di impossibilità della prestazione lavorativa, usufruirebbero dell’intervento della Cassa integrazione guadagni che è soggetta a una disciplina più puntuale e perciò più rigorosa.

Infine bisognerebbe intervenire perché la prestazione di disoccupazione sia concessa solo a condizione che lo stato di disoccupazione sia realmente accertato dai sevizi pubblici per l’impiego. … Si sostiene con ragione -riconosce l’A- che per come è svolto il lavoro agricolo, soggetto spesso a interruzioni dovute all’andamento meteorologico e climatico, non è possibile un accertamento puntuale dello stato di disoccupazione perché può capitare di avviarsi al lavoro la mattina, ma essere bloccati da un acquazzone o da una nevicata che impediscono di svolgere il lavoro programmato. … ma casi di questo genere -sostiene l’A- possono giustificare un numero limitato di giornate difficilmente superiore a 30-50 nell’arco dell’anno. Si potrebbe, pertanto, mantenere inalterato l’attuale sistema di pagamento dell’indennità di disoccupazione (senza cioè la necessità di un accertamento della disoccupazione patita da parte del servizio pubblico per l’impiego) soltanto per i lavoratori che raggiungono un numero di giornate annuo molto elevato e che pertanto hanno un rapporto più strutturato e consolidato con l’agricoltura (230?); per tutti gli altri, invece, che dichiarano un’occupazione inferiore a tale soglia, si dovrebbe avere diritto al pagamento delle giornate di disoccupazione e di tutte le altre prestazioni connesse soltanto in presenza di un reale accertamento dello stato di disoccupazione da parte dei servizi pubblici per l’impiego. Infine, questi ultimi potrebbero anche imporre al beneficiario, come condizione di accesso ai trattamenti, la partecipazione ad attività formative o lo svolgimento di attività o servizi di pubblica utilità.

CAPITOLO V

LAVORATORI PRECARI E INDENNITA’ DI DISOCCUPAZIONE

In quest’ultimo capitolo del libro l’A. ricostruisce le ragioni ed i caratteri della tutela contro la disoccupazione a favore dei lavoratori precari e stagionali di tutti i settori produttivi, nata nel 1988, con la legge n. 160, sul modello di quella già erogata da oltre trent’anni nel settore agricolo e chiamata con i requisiti ridotti perché sufficienti soltanto 78 giorni di occupazione per potervi accedere.

Dà conto, inoltre, dei risultati di un’indagine compiuta presso gli Uffici centrali e periferici dell’Inps per poter comprendere come si è evoluta nel tempo la platea dei soggetti che accedono alla tutela di disoccupazione con i requisiti ridotti (DSRR).

Dai dati nazionali, integrati con quelli raccolti a livello periferico nelle province di Foggia e Bari, emergono elementi significativi di valutazione circa i caratteri che hanno assunto nel tempo i beneficiari della DSRR. Questi possono essere riassunti come segue. 

1. Quasi un raddoppio in meno di un decennio

La platea dei beneficiari della prestazione di disoccupazione con requisiti ridotti si è quasi raddoppiata in meno di un decennio, passando dai 227 mila del 1994 ai 421mila circa del 2003.

2. I maggiori incrementi nelle Isole e al Sud

Nel periodo in esame i maggiori incrementi si sono avuti nelle Isole (+ 134%) e al Sud (+ 116%).

A livello regionale i maggiori incrementi si registrano nelle seguenti Regioni: Sicilia (+ 206%), Puglia (+162%), Basilicata  (+ 153%), Trentino (+ 137%), Calabria (+136%), Lombardia (+ 130%) e Lazio (+108%).

3. La precarietà è prevalentemente femminile, specie nel Nord del Paese

Nel 2002, oltre il 60% dei beneficiari della prestazione di disoccupazione con requisiti ridotti sono donne. La percentuale era ancora più elevata nel 1994 quando raggiungeva il 66% del totale.

Da un punto di vista di genere, a livello regionale, i beneficiari della prestazione sono per quasi 3/4 donne nelle Regioni del Nord, in particolare in Lombardia e nel Veneto (74%). Soltanto in Sicilia, Puglia e Basilicata gli uomini sopravanzano le donne con percentuali rispettivamente pari a 59, 57 e 54.

4. Si riducono mediamente le giornate indennizzate per ciascun lavoratore: più precarizzazione o maggiore occupazione annua?

Raggruppando in quattro fasce i lavoratori interessati sulla base delle giornate indennizzate (meno di 91 gg., 91-120 gg., 121-150 gg., più di 150 gg.), è possibile notare come l’aumento dei beneficiari della prestazione di disoccupazione registrato nel periodo in esame si è concentrato nella fascia di indennizzo più bassa, al di sotto cioè delle 91 giornate annue. In quest’ultima fascia, nel 1994, figurava il 38% di tutti i lavoratori indennizzati, nel 2002, tale percentuale è salita al 52% a discapito delle fasce di occupazione superiore che sono passate dal 34 al 26% (la fascia 91-120) e dal 25 al 19% (la fascia 121-150); mentre, la fascia più alta, comprendente i lavoratori con più di 150 giornate indennizzate all’anno, è rimasta pressoché stazionaria intorno al 3%.

…. l’incremento della fascia più bassa di giornate indennizzate può sicuramente essere interpretato come la risultanza di due opposti fenomeni: quello della precarizzazione dei rapporti di lavoro e quello della loro “stabilizzazione” o, meglio, del loro prolungamento nel corso dell’anno. Per avere cognizione di quale dei due fenomeni ora descritti sia prevalente bisognerebbe effettuare un’analisi delle giornate di lavoro denunziate da ciascun beneficiario, ma questi dati non sono recuperabili dall’archivio Inps.

5. Precari a vita

Analizzando la distribuzione dei lavoratori indennizzati in relazione all’età posseduta, emerge come a beneficiare della prestazione non siano tanto o solo i giovani alle loro prime esperienze di lavoro, quanto piuttosto gli adulti e anche i lavoratori anziani.

Nel periodo preso in esame (1994-2002), risulta addirittura ridotta la consistenza dei ventenni (dal 34 al 26% del totale) a favore delle classi di età superiore, in particolare, dei quarantenni (dal 18 al 24%) e degli ultra cinquantenni (dall’8 al 10%); mentre i trentenni restano pressoché stazionari intorno al 40%.

6. I settori che maggiormente beneficiano dell’indennità di disoccupazione con i requisiti ridotti sono scuola ed edilizia, seguiti da turismo, industria e sanità

I beneficiari delle prestazioni di DSRR sono per lo più i lavoratori precari della scuola e dell’edilizia che, insieme, coprono circa il 50% sia delle domande presentate che di quelle accolte. Questo dato è confermato da entrambe le indagini svolte presso le Direzioni provinciali Inps di Bari e di Foggia che evidenziano percentuali intorno al 28% per i lavoratori della scuola e al 22% per quelli dell’edilizia.

7. Oltre il 40% dei beneficiari dell’indennità di disoccupazione con i requisiti ridotti lavora per più di 150 giornate all’anno

Prendendo in considerazione le giornate di lavoro dichiarate per poter accedere alla DSRR, risulta che il gruppo più consistente di beneficiari denunzia un’occupazione di durata superiore alle 150 giornate annue. Questo è quanto emerge dall’indagine svolta presso le sedi Inps di Foggia e di Bari. In particolare, dividendo le domande di DSRR esaminate in quattro gruppi (meno di 51 giornate; da 51 a 100 gg.; da 101 a 150 gg.; oltre 150 gg.), sulla base delle giornate lavorate e denunziate, risulta che nella fascia più alta di occupazione figura oltre il 40% del totale dei richiedenti sia con riguardo alla sede di Bari (42%) che a quella di Foggia (41%). Tale percentuale raggiunge valori massimi per gli occupati nella scuola (59% Ba e 65% Fg) e minimi per gli occupati in edilizia (25% Ba e 26% Fg).

In conclusione l’A. considera i problemi da risolvere per il mantenimento e l’ulteriore espansione della tutela di disoccupazione con i requisiti ridotti. A tal riguardo, dopo aver evidenziato quanto siano elevati i costi che l’intera collettività deve sopportare per il mantenimento e l’inevitabile ulteriore espansione di una tale tutela, sottolinea la necessità che vengano garantite precise condizioni perché la stessa tutela possa risultare economicamente, socialmente e anche moralmente sostenibile.

A tal fine, -si afferma- sarà fondamentale che i beneficiari della prestazione risultino effettivamente disoccupati e alla ricerca attiva di un’occupazione e non impiegati (al nero) in altre attività più o meno regolari, in ciò favoriti proprio dalla prestazione di disoccupazione.

Bisognerà pertanto correggere l’attuale disciplina dell’indennità di disoccupazione con requisiti ridotti che non contempla alcuna forma di accertamento della effettiva condizione di disoccupazione con riguardo alle giornate per le quali si chiede l’erogazione della medesima indennità. Infatti, non solo non è prevista la verifica nei fatti dello stato di disoccupazione lamentato, ma neppure si richiede, nella documentazione da produrre per ottenere l’indennizzo, una benché minima certificazione formale circa il periodo di disoccupazione patito, quale potrebbe essere un attestato rilasciato dai Servizi pubblici per l’impiego… per questa via emerge nuovamente il ruolo centrale che sono chiamati a svolgere i Centri per l’impiego se davvero si vogliono estendere le tutele per i lavoratori precari senza favorire però il lavoro nero o alimentare comportamenti opportunistici che farebbero venir meno l’indispensabile apporto di solidarietà necessario per coprire le ingenti spese che una simile tutela comporta.